Il commercio equo e solidale (CEeS) rappresenta in modo esemplare alcune sfide e contraddizioni della nostra epoca. Testimonia con i fatti che la pretesa del neoliberismo di essere l’unico modo efficiente di organizzare l’economia è falsa, e che è possibile servirsi del mercato per avere prodotti di qualità e promuovere, allo stesso tempo, la dignità umana, l’equità, la democrazia economica, la sostenibilità. Mostra anche la debolezza dei movimenti “dal basso” che non riescono a tradursi in progetti politici più grandi, in grado di influenzare le decisioni e le regole stabilite dai soggetti che contano, pubblici e privati, a livello nazionale e sovranazionale.
1. Limiti e potenzialità del commercio equo e solidale
Gli studi di impatto ci dicono che il CEeS mediamente dà piccoli benefici, produce piccoli miglioramenti nelle condizioni di vita dei produttori. A ciò si aggiunge che il loro numero è abbastanza piccolo (10 milioni comprese le famiglie?). Ma questo non significa che sia irrilevante! Tra poco e niente la differenza è grandissima! Inoltre è importante non dare per scontato che l’obiettivo sia ottenere grandi miglioramenti nel tenore di vita. Frans van der Hoff sottolinea che per i campesinos di UCIRI l’obiettivo non è lo sviluppo, ma la sopravvivenza, e che la povertà non è un male, lo è la miseria! Se valutiamo i risultati del CEeS con il metro della nostra visione del mondo (occidentale, economicista, produttivista, ecc.) sbagliamo tutto.
Il commercio equo e solidale ha ottenuto tre grandi risultati:
- Durare nel tempo: esiste da oltre 50 anni!
- Non farsi travolgere dalla globalizzazione neoliberista!
- Beneficiare alcuni milioni di contadini, artigiani, lavoratori salariati, le loro famiglie, le loro comunità locali, le loro organizzazioni cooperative e sindacali!
Per questi motivi non può essere liquidato superficialmente come fenomeno insignificante!
Allo stesso tempo dobbiamo ammettere che è stato meno efficace nell’ottenere riconoscimenti da parte del mondo politico. Soprattutto è coinvolto nel fallimento delle forze del terzo settore italiano rispetto al compito di costruire un grande movimento di trasformazione sociale, che sarebbe dovuto scaturire dalla loro alleanza!
Mentre il potere politico ed economico si è concentrato, è migrato verso l’alto e verso soggetti sempre più opachi e lontani, in basso si è avuta la dispersione, la frammentazione, la privatizzazione dei problemi, la chiusura nell’individualismo. I corpi intermedi non hanno saputo reagire a questa dinamica, non hanno messo in campo una strategia finalizzata ad aumentare il livello di organizzazione e il coordinamento tra lotte diverse!
La rarefazione dei legami sociali e la confusione culturale li hanno indeboliti, a fronte del progetto politico neoliberista che invece è culturalmente molto coeso, organizzato ed economicamente forte (tanti soldi da investire per promuovere i propri obiettivi).
Quindi la credibilità del CEeS si gioca nella capacità di non distrarre le forze sane della società, le persone capaci di impegno generoso, dalla consapevolezza che per ottenere cambiamenti economici e sociali significativi dobbiamo riuscire a influenzare i livelli di governo, dobbiamo “fare politica in grande” e non limitarci ai gesti di coerenza individuale.
Detto in altro modo: dobbiamo fare in modo che i due tipi di impegno, nei movimenti e nei partiti, come consumatori responsabili e come cittadini elettori, si integrino e si potenzino vicendevolmente (gioco a somma positiva) invece di essere alternativi (gioco a somma zero).
Dobbiamo sapere che “votare con il portafoglio ogni volta che facciamo la spesa” è utile, ma non basta! Il consumo responsabile è importante, ma se fosse fine a sé stesso potrebbe nascondere la vittoria completa del neoliberismo!
2. Agente di trasformazione o nicchia di mercato?
Il discorso sugli “stili di vita” possiede una grande potenzialità: può raggiungere tutte le persone! Ma rischia di sottrarre energie a lotte politiche più importanti. L’effetto di giustificazione, di gratificazione, di consolazione che i comportamenti eticamente orientati hanno sulla coscienza infelice di ciascuno (infelice a causa della nostra impotenza di fronte a ciò che devasta il mondo umano e naturale) dovrebbe essere motivo di fiducia nell’azione e nell’impegno. Non per accontentarci del micro-contributo che ogni nostro comportamento porta al Bene Comune, ma per darci più coraggio e più slancio nell’affrontare le sfide enormi che abbiamo davanti! Quel “sentirsi meglio” dovrebbe metterci in movimento, renderci attivi per andare oltre i piccoli gesti individuali.
Senza questo respiro ampio il CEeS rischierebbe di diventare un fenomeno di nicchia: ha conquistato la sua fetta di mercato, ha creato dei marchi per farsi riconoscere dai consumatori, ha le sue strutture organizzative di promozione e coordinamento, ma non sarebbe una forza squilibrante che genera cambiamento. L’economia capitalista di mercato lo potrebbe tollerare come un piccolo corpo estraneo, un fenomeno marginale che non mette in discussione il meccanismo principale. Anche perché le imprese for-profit possono creare e commercializzare prodotti a marchio FairTrade per ripulire la propria immagine …
3. Al cuore delle nostre contraddizioni
Può capitare di sentire questa obiezione: “Perché dovremmo sostenere il commercio equo e solidale quando gli stessi problemi di sfruttamento del lavoro esistono anche nel nostro paese?”
Perché non sono battaglie alternative! Non dobbiamo scegliere l’una o l’altra! Possiamo e dobbiamo portarle avanti insieme! L’ordine politico ed economico che tiene bassi i prezzi del caffè brasiliano e i prezzi dei pomodori pugliesi è lo stesso.
Dobbiamo tenere insieme tutto: solo così possiamo affrontare l’origine dei problemi, la contraddizione fondamentale che neppure le forze politiche più sensibili ai diritti e alle condizioni economiche delle classi svantaggiate (di sinistra, progressiste, democratiche, chiamiamole come si vuole!) hanno saputo affrontare con coerenza: il nostro tenore di vita, il nostro “sviluppo”, è basato sullo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, che si realizza soprattutto lontano dai nostri occhi, ma anche in casa nostra!
Il CEeS mette in evidenza la connessione tra i nostri elevati consumi e i bassi prezzi pagati per i prodotti che importiamo. Oggi come ieri, l’opulenza delle società ricche è la conseguenza delle politiche secolari di dominio ed oppressione realizzate attraverso il colonialismo, che poi è diventato neo-colonialismo e oggi si è trasformato nella globalizzazione neoliberista!
La novità della globalizzazione consiste nel fatto che la frontiera tra sfruttatori e sfruttati, tra privilegiati e oppressi, corre sempre meno tra i paesi e sempre più dentro i paesi.
Il CEeS è scomodo: ci ricorda che l’internazionalismo dei lavoratori non ha funzionato, che la solidarietà non si è globalizzata, che abbiamo barattato la mancata tutela del lavoro nel Sud del Mondo in cambio dei bassi prezzi dei prodotti che acquistavamo. Alla lunga è stata una strategia perdente, perché il capitalismo ha globalizzato il lavoro precario, degradato e malpagato, e lo ha portato a casa nostra.
4. Andare oltre …
Francesco Gesualdi scriveva nel suo Manuale per un consumo responsabile (Feltrinelli, Milano, 1999, p.99) che il CEeS risponde a due fini: 1) soluzione di emergenza per chi è vittima di un sistema commerciale ingiusto e oppressivo; 2) campo di sperimentazione per dimostrare che è possibile un’alternativa.
Quindi ha un obiettivo limitato di breve periodo, ma pone delle questioni più ampie e propone una visione diversa dell’economia, che potremmo sintetizzare in quattro punti: prezzo equo, sostenibilità sociale ed ecologica della produzione, alleanza tra produttori e consumatori, commercio regolato e sottoposto all’interesse generale.
Aggiungeva Gesualdi: “Di fronte alle vittime dell’ingiustizia, le persone impegnate si possono dividere schematicamente in due categorie. Da una parte quelle con poca consapevolezza politica e molto buon cuore, che si limitano ad atti più o meno caritatevoli; dall’altra quelle con molta consapevolezza politica e poca attenzione per i singoli, che si limitano ad azioni di protesta per far cambiare il sistema.” (ivi, pag.112).
Chi ha “inventato” il commercio equo e solidale, 50 anni fa, voleva saldare queste due posizioni. Oggi, nell’epoca dell’anti-politica, quella saldatura resta la sua forza, la sua unica possibilità di essere un punto di riferimento importante e valido.
In conclusione il commercio equo e solidale può mantenere la sua identità solo andando oltre sé stesso ed essere:
- soggetto di reti locali di economia sociale e solidale;
- promotore di una coscienza critica che prepari nell’opinione pubblica il consenso necessario per le scelte di politica generale;
- movimento popolare che, insieme ad altri movimenti con finalità simili, collabora con i partiti politici per costituire una grande forza di trasformazione sociale capace di modificare le scelte di governo.
Con il contributo di tutti noi!
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